Il 19 marzo scorso è iniziata in Turchia una vasta ondata di proteste contro il governo. Il movimento è nato come reazione al fermo e al conseguente arresto del sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoğlu, uno dei principali esponenti del primo partito di opposizione, il CHP, il Partito Repubblicano del Popolo che si richiama alla tradizione del nazionalismo laico kemalista. Il sindaco della città più grande d’Europa è accusato di corruzione, riciclaggio, estorsione e supporto ad organizzazione terroristica, in particolare al PKK. Nell’ambito dello stesso caso sono state arrestate altre 100 persone circa, tutte legate all’opposizione. In conseguenza all’arresto, Imamoğlu è stato sospeso della carica di sindaco della metropoli sul Bosforo per la quale stava svolgendo il secondo mandato, gli è stato inoltre annullato dall’Università di Istanbul il diploma di laurea, per presunte irregolarità. Si tratta chiaramente di un tentativo da parte del Presidente della Repubblica di Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, di escludere dalle elezioni presidenziali del 2028 il suo principale concorrente e di assicurare il potere al proprio partito conservatore-religioso AKP e al suo alleato nazionalista-razzista MHP, legato all’organizzazione dei Lupi Grigi.
Questo ha provocato l’estendersi di proteste in tutto il paese. Ad Istanbul oltre alle grandi manifestazioni quotidiane davanti al municipio, ci sono state manifestazioni nei quartieri popolari e nei comuni della cintura della metropoli. Nelle Università di Istanbul, di Ankara e in molte altre città, c’è stata una grande mobilitazione studentesca e in generale le generazioni più giovani hanno partecipato in larghissimo numero alle manifestazioni che si sono diffuse in tutto il paese. La reazione del governo alle proteste è stata dura, sono state vietate le manifestazioni, la polizia è intervenuta con violenza sia nelle strade sia nelle università, ci sono stati oltre 2000 arresti, numerosi feriti, nel silenzio della maggior parte dei media, con arresti di giornalisti che davano copertura alle manifestazioni e con restrizioni più o meno efficaci nell’accesso ai social media. Questo non ha finora fermato le proteste, anche se nelle prossime settimane si capirà se il variegato movimento riuscirà a trovare delle forme efficaci o se andrà ad estinguersi di fronte alla dura repressione. Erdoğan prova ad addormentare la protesta con delle inaspettate vacanze prolungate. Lo scorso 26 marzo, durante una cena di Iftar – la rottura del digiuno dopo il tramonto nei giorni di Ramadan – offerta ad alcuni lavoratori nel palazzo presidenziale, il Capo di Stato ha annunciato che le feste per la fine del Ramadan, che normalmente durano tre giorni, sarebbero state estese a nove, dal 30 marzo al 7 aprile. Con uffici pubblici, scuole e università almeno in buona parte chiuse, lavoratori pubblici a casa e molti servizi ridotti, si cerca probabilmente l’occasione per disinnescare le proteste e forse giungere a un accordo o a piegare l’opposizione. A ricordare quale sia la vera faccia del potere è Devlet Bahçeli, leader del MHP, che ha dichiarato il 1 aprile che se le proteste continueranno, potrebbero doversi confrontare con manifestazioni pro-governative. Considerando da chi proviene la dichiarazione, si può intendere come minaccia di mobilitare squadre violente organizzate. È probabile che né le forze di governo né il principale partito di opposizione si aspettassero proteste di questa portata, e per il CHP è certo un problema come mantenere il movimento nei limiti della compatibilità del sistema politico, o comunque negli schemi funzionali alle strategie del partito.
Questo è chiaro se consideriamo che non si tratta solo di un braccio di ferro tra governo e opposizione. E non tanto perché in piazza, anche alle manifestazioni convocate dal CHP, sono presenti in modo visibile con le proprie bandiere anche quelle forze della sinistra rivoluzionaria che ritengono che la fine del regime di Erdoğan possa aprire a una nuova fase nel paese, ma perché la vasta partecipazione popolare e giovanile è segno di una profonda insofferenza verso il potere repressivo del governo radicata e diffusa nella società, che ha trovato un’espressione politica radicale nella reazione a questa ennesima prevaricazione da parte del blocco di potere AKP-MHP.
Inoltre, questo nuovo processo si inserisce in una lunga fase di crisi economica in Turchia, che si prolunga ormai dal 2018, e che ha portato più della metà della popolazione del paese a non riuscire a far fronte alle spese alimentari. Il grande consenso attorno all’AKP e allo stesso Erdoğan era cementato dalla crescita economica che aveva caratterizzato gli anni Duemila e buona parte degli anni Dieci, che aveva non solo fatto emergere una nuova borghesia imprenditoriale legata al suo partito e un nuovo ceto impiegatizio e di quadri, favorito da un lato dalla crescita del terziario e dalle privatizzazioni, dall’altro dal progressivo controllo del governo sulla pubblica amministrazione. Una crescita che aveva anche promosso un consenso popolare, con la favola dello sviluppo, con riforme e opere pubbliche che avrebbero assicurato non solo lavoro ma prosperità a tutti. La fine dell’illusione con l’inflazione a livelli record e l’aumento del costo della vita, ha riportato a galla le grandi diseguaglianze sociali del paese, che la fase di sviluppo aveva solo reso più profonde. Da quel momento ha avuto inizio l’emorragia di voti per l’AKP, che per garantirsi il potere ha dovuto allearsi con il MHP, e intensificare la politica di guerra. Ciò ha garantito stabilità politica, ma ha peggiorato la situazione economica. Ci sono quindi profonde cause sociali dietro alla vasta partecipazione giovanile e popolare alle proteste di queste settimane, che si uniscono, e in parte si sovrappongono, alle cause politiche nel rifiuto dell’autoritarismo.
C’è anche da considerare un ulteriore elemento: la Turchia è un Paese militarista, ha il secondo esercito della NATO, ed è un Paese in guerra su vari fronti. Ne facciamo presenti solo alcuni. Dal gennaio 2018 la Turchia ha invaso interi distretti della Siria settentrionale, iniziando da Afrin, e proseguendo a più riprese negli anni con l’occupazione di altre aree oltre i propri confini, nel quadro del tentativo di eliminare le forme di autogoverno create dalle forze del movimento di liberazione curdo nel Nord Est della Siria. Sempre nella guerra contro questo movimento, dal maggio 2019 le forze armate turche sono presenti nel Nord dell’Iraq, anche con proprie basi e aree controllate autonomamente, conducendo attacchi contro il PKK nella regione. Una guerra che viene condotta anche a livello interno e che ha comportato negli ultimi anni una crescente stretta nei confronti della popolazione curda. È una situazione da considerare in un paese in cui le forze armate hanno sempre avuto un ruolo centrale nei processi politici, intervenendo anche con colpi di stato militari in diversi momenti storici. Certo le campagne di guerra degli ultimi anni avevano garantito al governo AKP-MHP un certo sostegno almeno di una parte dell’opposizione. Infatti il CHP, pur con occasionali critiche, ha sempre appoggiato le operazioni contro il movimento curdo dalle proprie tradizionali posizioni nazionaliste e di appoggio ai militari. La caduta del regime di Assad in Siria e la costituzione di un nuovo governo a Damasco che può considerarsi vicino ad Ankara, insieme all’annuncio di Abdullah Öcalan, storico leader del PKK incarcerato dal 1999, che invita allo scioglimento del partito, sono due processi che a livelli distinti pongono la Turchia in una situazione nuova. La guerra pluridecennale contro il “terrorismo curdo” potrebbe finire, la nuova Siria potrebbe diventare un buon alleato. Anche Azerbaijan e Armenia sembrano sul punto di fare la pace. Se questo disegno dovesse compiersi, l’incoronazione di Erdoğan come grande “pacificatore”, potrebbe essere la sua consacrazione alla guida del paese, ma potrebbe anche far venire meno – terminata una fase di emergenza – quella coesione istituzionale, militare e patriottica intorno al presidente.
Probabilmente, in questo momento Erdoğan prova a spaccare il fronte delle opposizioni che alle elezioni locali del 2024 ha strappato alla sua coalizione il primato alle urne, affrontando separatamente i due principali partiti di opposizione. Il CHP e il partito HEDEP, ora più conosciuto come DEM, riferimento per la numerosa minoranza curda e per una ampia parte della sinistra, potrebbero in effetti sconfiggere la coalizione AKP-MHP alle presidenziali del 2028. Ora, il governo turco ha attaccato frontalmente il CHP con l’arresto di Imamoğlu, mentre, in dialogo con il partito DEM, ha avviato dallo scorso novembre un nuovo processo di pace con il PKK, anche se non ha ancora fatto passi concreti in questo senso dopo l’appello di Öcalan dello scorso 27 febbraio. In ogni caso Erdoğan ha ancora una volta dimostrato quanto possano contare i risultati elettorali quando c’è in ballo la conservazione del potere.
Le risposte a questi problemi potranno venire solo dal movimento popolare, che si presenta variegato e contraddittorio. Un movimento che comunque rappresenta la risposta sociale all’autoritarismo, al militarismo e alla miseria che opprimono le classi sfruttate. Un movimento a cui danno il proprio sostegno concreto e partecipazione anche diverse anime del movimento anarchico attivo nel paese.
Dario Antonelli